Martorelli Gigi
Trovandosi di fronte ad un’opera di Martorelli, si entra inevitabilmente in un percorso suggestivo e profondamente articolato.
Un percorso affascinante, dove a guardar bene ci sono solo tre colori, quelli primari, che si amalgamano diventando crogiolo di tensioni razionali ed inconsce, che diventano a tratti, case, limoni, vulcani, mare, volti abbronzati, orizzonti, luce.
Una pittura che ha intuizioni istintive e moti dell’anima che s’intrecciano in eleganti vie espressive che richiamano e recuperano l’esperienza delle Avanguardie italiane della seconda metà del ‘900 e che le trasportano, in piena maturità nel terzo millennio.
Martorelli non si rifà.
Le sue opere sono uniche, anche se l’artista spesso si è contaminato, tra amicizie e percorsi di vita, con un mondo, quello del rinascimento culturale post futurista, degli anni sessanta e settanta milanesi e romani.
Suggestioni spesso imponenti, che dialogano con lo spazio invadendolo, appropriandosene e lasciandolo dominare dal colore e dal tratto.
Opere in cui traspare la volontà dell’artista di ricercare una sua dialettica tra materia e luce, forme e dimensioni, spesso semplici, senza prospettiva, essenziali.
Martorelli osa.
E ama indagare dentro se stesso, senza lacune o remore, senza timori.
E’ al di là di ogni cosa.
In molti lavori troviamo il tempo che scorre, la luce che invade, i corpi degli altri, la sottile materialità di oggetti solidi, i solchi di corrosione, quelli delle rughe del suo volto, che lo rendono così umano e sofferto, impressi su di essi.
Come acidi che corrodono e che purificano.
Così Martorelli ci racconta la “sua” Sicilia, e lo fa attraverso i gialli della luce, i rossi della terra e del cuore, gli azzurri del cielo e del mare, e l’isola diventa una vela che lo porta al di là del mediterraneo.
I quadri ci raccontano delle sue alchimie di pensiero, dei processi alchemici volti a disciplinare lo spirito dell’alchimista\pittore, e il pennello diventa una spada da samurai, sottilissima e affilatissima, che racconta la storia dell’artista attraverso piccoli segni, e grandi spiragli di luce.
Perdersi, soffermarsi, rileggere il quadro di Gigi Martorelli è come trovare tracce di memoria nelle quali ognuno può ricercare il proprio vissuto.
Sono i simboli di una memoria illuminata dallo spirito.
Sono il segno dell’Arte, e abbagliati dalla sua luce, dalla sua visione, forse potremo riuscire ad intravedere un bagliore di quel “Primum Mobile” che è all’origine di tutto, di quell’“amor che move il sole e l’altre stelle” di cui cantava Dante.
In questa sintesi artistica si pone l’impegno di Pathos, l’Associazione culturale voluta da Roberto Santoro e Carlo Rinaudo, prima amici, poi compagni di “viaggio” e quindi estimatori di Gigi Martorelli, che a lui dedicano la mostra orlandina, che genera questa monografia, unica nel suo genere in quanto raccoglie, non l’opera omnia dell’artista, ma una serie di scritti, testimonianze ed opere che parlano delle due anime pittoriche che caratterizzano la sua storia, dall’astrattismo al realismo, tra figurativo e surrealismo, dei suoi passaggi umani e culturali e della stessa vita di Gigi.
Gigi Martorelli nasce a Palermo nel marzo del 1936 nella città che era la più bella città del Sud, prima che i bombardamenti le deturpassero i quartieri, e poi il cemento le portasse via i gioielli del suo liberty, muore nel 2015.
Il padre marchigiano, ama la musica, gli dona il gusto del bello e dell’arte, e con la madre agrigentina vogliono tanto per lui.
Poi la guerra, lui con le quattro sorelle e gli altri due fratelli, vanno ad abitare nelle Marche, dai nonni, e lì segue le vicende del conflitto attraverso i racconti del padre tenente colonnello – che era andato a dirigere la banda dell’esercito, disegna fumetti, ed usa vecchie matite.
Da qui l’amore per i colori, il rosso, il blue, poi il giallo, ma questa sarà un’altra storia.
Tra il 1950 e il 1955 frequenta le scuole superiori, l’istituto nautico prima, ma non è la sua strada, gli rimane solo nel cuore il senso del mare e dei suoi abissi, dei colori, poi va al Liceo artistico, quindi il sogno; la sua vita diventa una certezza, si iscrive all’Accademia delle Belle Arti, non a caso avviene l’incontro con Pippo Rizzo, tardo futurista, un maestro sempre pronto a captare ed incoraggiare le possibilità dei giovani allievi e ad attivare in loro, precoci processi operativi.
E’ la prima contaminazione importante.
Quelle lezioni, di vita e d’arte, echeggiano ancora oggi in Martorelli.
Correva l’anno 1957, lontani dal boom economico, ma già Milano offriva spazi e opportunità.
Martorelli arriva qui per la prima volta, ad aspettarlo nello studio di Via della Spiga, c’è Giuseppe Migneco.
Il maestro, già affermato, aveva scorto in lui una valida promessa della pittura italiana.
E non si sbagliava.
A Milano Martorelli rivede anche il maestro Pippo Rizzo, – impegnato in una commissione d’esami in un liceo meneghino – che lo presenta al gallerista Cardazzo e lo introduce in altri ambienti artistici.
Frequenta Brera e il bar Jamaica, punto d’incontro tra artisti, critici e mercanti.
E’ il tempo di conoscere Bay e Crippa, che girava per la città con una formula uno del tempo, opportunamente omologata, Manzoni, Dova, Matta, Lam e Purificato, che, come Migneco, lo invita a lavorare nel suo studio.
Ci volevano 2000 lire per coprire i costi di una settimana per vivere quella Milano ancora lontana dall’essere la “città del bere” degli anni futuri.
I soldi servivano, tra affitto e locali, per tirare avanti e “a volte – ricorda Martorelli – era lo stesso Migneco che attraverso l’esecuzione di piccole commissioni, ma sempre in maniera indiretta e discreta, mi dava quei soldi”.
Martorelli sceglie la strada più difficile, irta, impegnativa.
Scommette su se stesso.
L’ha fatto da sempre.
Ma l’esperienza dura poco; va via dalla Città, troppo caotica, troppa piena di eventi, troppa gente.
E’ un vociare che lo disturba e lo affascina, che lo inquieta e lo ispira.
Tuttavia l’artista cerca se stesso, al punto che rifiuta anche di andare in Tv; era un ottimo vocalista e strumentista e l’avevano contattato per un varietà della Rai.
I suoi dipinti di riferimento sono per ora le opere di De Chirico e gli informali Vedova, Fautrier e Polloc.
Sul finire degli anni ’50, la sua pittura si articola tra un astrattismo inquieto e affollato di segni e nitido insieme che ammicca a Kandiskj.
Le forme si confondono nelle sagome di paesaggi, urbani ed extraurbani.
Ma emerge il suo carattere e in quegli anni si definisce quello che sarà un elemento conduttore, che unisce e definisce la sua grafica: il colore.
E’ un’impronta personalissima quella delle scelte cromatiche, tre unici colori, sono i primari, rosso, blu e giallo, che lo riportano all’infanzia, a quelle matite con le quali disegnava ascoltando suo padre suonare.
Sono quei colori che “macchiano” gli oggetti e gli elementi di una natura morta che cominciano ad emergere nei suoi dipinti e che verranno invasi, con ritmo ossessivo negli anni a venire, da tenaglie, pinze, barattoli, contenitori, pennelli, pesci, limoni ecc.. rivelando la tensione verso una ricerca prevalentemente formale e cromatica.
Nel ’59 Martorelli si diploma all’Accademia e intensifica la sua partecipazione alle mostre collettive; vende anche, pur non potendo, i lavori realizzati durante le lezioni in Accademia, e di questo sorride ancora fino ad essere presente insieme ad altri artisti palermitani alla mostra del centro di Belle Arti di Maracaibo.
Nel ’61 vince il terzo premio della mostra internazionale nella città di Agrigento, mentre il 1962 diventa l’anno fondamentale nella carriera del maestro.
E’ l’anno della sua prima personale allestita alla galleria d’arte Flaccovio di Palermo, nei giorni in cui Luchino Visconti girava per la città il suo “Il Gattopardo”.
“Era il tempo che qualche collega, ricorda ora il maestro, criticava il mio stile, la mia concezione dell’arte, l’affastellare degli oggetti, il senso delle dimensioni, per poi scoprire, vent’anni dopo, proprio che chi criticava, poi copiava quel tratto…. Soddisfazioni”.
E che soddisfazioni!
La mostra palermitana attira sul giovane artista l’attenzione di critici, collezionisti e ammiratori attratti dalle sue indiscusse capacità, oltre che dalla sua personalità.
Genio e sregolatezza.
In quest’ambito il maestro Martorelli trascorreva serate ricche di confronti e conoscenze.
Era il tempo degli incontri con Leonardo Sciascia, Natale Tedesco, Mario Farinella, Elvira ed Enzo Sellerio, Nino Buttitta, Bruno Caruso, Aldo e Mario Pecoraino, Pippo Bonanno, degli ospiti dell’intellighenzia palermitana che da questa venivano accolti. E Martorelli conosce, colloquia, incontra Pasolini e Moravia.
Quindi, da questo periodo in poi, passa per una ininterrotta presenza in molte gallerie, di cui diviene ben presto polo d’attrazione, non disdegnando la recitazione di versi di Garcia Lorca, a cui dedicava anche disegni a inchiostro… chine ormai introvabili.
E’ il tempo, che il Maestro, come ora lo chiamano, inizia anche a dedicare all’insegnamento.
Lo fa per quasi nove anni al Liceo Artistico di Palermo, vivendo cosi una esperienza ricca e stimolante sul piano umano, sentimentale e pittorico.
Ma i tempi, le lezioni, i registri, presidi e regole non sono vita adatta a lui.
Anche qui la decisione drastica.
Mollare tutto.
Martorelli punta sul Banco.
Se stesso.
Intuito il pericolo del blocco dell’evoluzione del linguaggio pittorico che si annidava dietro la ricerca del nuovo a tutti i costi, Martorelli approda ad un suo particolare neofigurativismo, in cui sovrastano scene di una realtà urbana soffocante, sullo sfondo di minacciosi fuochi notturni o popolata da maschere allucinanti e attonite che appaiono sotto forma di stranissimi esseri.
Sono momenti di crescita personale ed artistica. Di maturazione.
Che nell’immediato successivo lo portano verso il recupero della realtà.
L’idea grafica si stabilizza in forme più personali, strumenti e personaggi meccanici, paesaggi, in cui perfino le lune sono spezzate.
Quasi a voler sottolineare la dolorosa ambientazione dell’uomo con la tecnologia.
Martorelli vive la storia e la cultura di quegli anni.
Dei grandi cambiamenti, della contestazione e del mettersi in discussione.
Anche di fronte al fenomeno della Pop Art, prende la netta posizione contro il pericolo dell’annullamento delle culture regionali, pur apprezzando la positività di ogni forma sperimentale che segua nuovi tracciati di ricerca.
Nel 1970, ancora un “transito” decisivo per il suo percorso esistenziale ed artistico.
Inizia la sua epopea Romana.
La sua vocazione artistica non gli permette di accettare interruzioni o ritorni.
Non accetta limiti e barriere.
Trasferirsi nella capitale, impiantando lo studio in via Gesù e Maria, è quasi una tappa obbligata.
Continuerà ad amare Palermo e la sua Sicilia, ma qui cercherà di diventare solamente un pittore tout-court.
A Roma, Martorelli non sfugge al vortice mondano, lì in voga tra salotti, mostre e aperitivi, cerca di attirare su di sè l’attenzione di critici e collezionisti, tra cui spicca l’industriale Vecellio, ed è autore di riuscite mostre alla galleria Soligo, alla Due Mondi, a “il Vantaggio” ed alla Bitta, dove spesso Mantovani, allora direttore dell’Accademia d’Arte capitolina portava, senza invito, le scolaresche a vedere le personali di quest’artista.
Le sue opere girano per l’Italia, a Padova, Cremona, Verona si tengono le sue mostre.
Tot, Franchina e Vituzzo sono i più presenti tra gli amici artisti di quel periodo.
Martorelli percorre tutta l’“avventura del segno”, scompone, frantuma e distacca la realtà con contorni netti e strane metafore, tra cui assume una posizione centrale la farfalla meccanica, simbolo di speranza, e il limone spaccato, simbolo della sicilianità e del suo modo di intendere il rapporto con la sua terra madre.
Terra Madre su cui si appunta il suo acume interiore dove palpita un nucleo germinale che aspira al dialogo con l’esterno.
Il suo soggiorno romano dura dieci anni, fino al 1980.
Poi andando via “regala” il suo numero telefonico all’amico Mario Schifani.
Dieci anni di esperienza e di tensione, di affermazioni insospettate e di rituali imposti e di non sentite mondanità, da cui la netta e risolutiva decisione di tagliare i ponti con la città e ritornare all’antica madre, ma non alla città nativa, bensì in isolamento, in un contatto diretto con la natura, in particolare con il mare, l’elemento infinito e libero per eccellenza, i luoghi e il paesaggio di Capo D’orlando dove tuttora vive e lavora, rifiutando la mondanità, evitando le confusioni dei salotti, parlando e confrontandosi solo con un cenacolo di giovani pittori ed amici…
Il rapporto netto con la natura accentua gli elementi neo figurativi della sua pittura che sempre di più si rivolge al paesaggio eoliano e marino, a volte anche per sottolinearne l’abbandono e il degrado.
Anche la tavolozza cromatica assume nuove soluzioni, soprattutto con l’inserimento di nuovi colori, il rosa ai tramonti e alla albe, nuove tonalità di rosso e di verde.
Ora sperimenta l’uso della sabbia fissata sulla tela e mescolata ai colori con singolare impasto, dando vita a particolari tecniche miste.
Ammira, come modello umano e artistico, l’altro pittore siciliano, abitante di fronte ad altro mare, a Scicli, Piero Guccione, e nutre una sorta di ammirazione-rifiuto, di odio-amore per Guttuso, spesso però presente in certi suoi tetti o in certe sue nature morte.
Passano gli anni e si moltiplicano le sue partecipazioni a mostre collettive e personali da Palermo e in giro per il territorio nazionale.
Gigi Martorelli è infatti, da sempre presente in mostre personali e collettive.
Sono oltre cinquant’anni di carriera intensa a corroborare il decoro di decine e decine di manifestazioni, tutte di rilievo nazionale e oltre.
Alla sua pittura si sono interessati sia critici d’arte che grandi scrittori.
Tanti sono infatti i motivi di ispirazione che la sua opera genera dentro chi, con la poesia o la letteratura, con la musica o la scultura, prende atto di quanto numerosi siano i punti di incontro e di confronto culturale, nonché di stimolo a proprie attigue ricerche personali.
Martorelli, non ha mai accettato compromessi, né “girato” la testa per evitare o calare lo sguardo, ha trattato alla pari con galleristi e mercanti, dettando la sua legge o andando, semplicemente via.
Uno scotto che ha pagato caro.
Tra i suoi artisti preferiti Burri, Capogrossi e Bosh, tra i suoi ricordi più cari… il viaggio in Grecia, appena adolescente, con Lucio del Pezzo.
Un viaggio vinto per essere stato tra i migliori primi venti allievi selezionati tra le Accademie d’Italia.
Massimo Scaffidi con l’Associazione Pathos